Aspetto l’autobus in centro. Sul bordo estremo a destra del marciapiede così posso salire dall’entrata anteriore. Tanta gente. Osservo i cambi dell’antropologia degli utenti dell’autobus. È molto cambiata da quand’ero studente. La maggior parte delle persone ha ancora magliette a maniche corte e flip flap ai piedi. Come d’estate. La luce ha già assunto quei toni rossastri che descrivano le giornate di fine stagione. L’aria si elettrizza mischiando la nostalgia con la voglia di cambiamento.
Pensieri di basso profilo. Penso a un cd dei Mercury Rev che ho comprato da qualche giorno e che non ho ancora ascoltato come si deve. Il primo pezzo ha però un incedere bellissimo.
Penso a cose così.
Poi mi stufo di spiare quelli che aspettano alla fermata e con lo sguardo attraverso la strada.
E allora lo vedo. Se ne sta proprio all’angolo appoggiato al bordo di un negozio di ottica. Ha un completo scuro. Mi viene voglia di attraversare la strada e di salutarlo ma poi lo osservo meglio e dalla posizione sembra che sia un po’ curvo, come se stesse parlando al cellulare.
Mica ci vedo bene io. Ma sì, mi sembra un cellulare. Cosa vado a disturbarlo?… ma poi non è un cellulare o forse ha smesso e adesso si sta accendendo una sigaretta. È sempre nella stessa posizione di chi aspetta. Che faccio?
Nel frattempo l’arrivo dell’autobus mi distrae. Non è il mio è sempre quell’altro. Quell’altro autobus passa sempre più spesso. È chiaro, è evidente. Riguardo al di là del marciapiede e lui ha smesso di aspettare perché è appena arrivata una tipa. Una ragazza, vestitino corto, mi sembra. Capelli lunghi, carina. Peccato per i sandali alla schiava che non m i piacciono proprio. E qua si potrebbe aprire un bel discorso sui sandali. Si muove bene, sembra sicura, ha personalità. Potrebbe fare teatro.
Si abbracciano parlano come giustamente si fa e a me non va di continuare a guardare, distolgo lo sguardo, non sono cazzi miei. Eppure lo sguardo indugia su altri abbracci, qualche tenerezza.
Ma quando passa questo autobus? Il mio autobus.
Guardo fisso a sinistra dalla direzione da cui dovrebbe arrivare il mio autobus e mentre guardo penso alle spie. Al mestiere di spie, alla graphic novel di Matt Kindt che ho appena letto. Si intitola Superspy e la scritta sul dorso sembra un po’ quella di Superman fatta male e naif. Un libro di spie, storie di spie, tranche de vie quotidiane ambientate durante la seconda guerra mondiale nel fronte europeo. Storie piccole, a volte tristi, a volte con risvolti grotteschi come sono spesso le morti in tempo di guerra. Fare la spia è un po’ come avere il superpotere dell’invisibilità. Jonatham Lethem dice che quando si è piccoli il potere preferito è sapere volare, poi da grande diventa l’invisibilità. Io continuo a preferire il volo e non tiratemi fuori la solita sindrome di Peter Pan. Questa cazzo di sindrome l’avrà inventata uno che era già vecchio a cinque anni e diceva che guardie e ladri non era un gioco politicamente corretto.
Nel frattempo il mio autobus è arrivato. Anche altre persone hanno avuto la mia stessa idea di salire dalla porta anteriore e così ci scanniamo come si stanno scannando là dietro. Dopo che ho vinto con la macchinetta obliteratrice cerco dia assestarmi ed è allora che lo rivedo. Li rivedo. Si sono mossi dall’angolo nei pressi dell’ottico e si avviano. Dal finestrino sembrano dentro uno schermo. Diventano fiction. Lui cammina a capo chino e mani in tasca e non si avvede che lei invece ha cambiato direzione e sta attraversando la strada. Per un attimo sembrano che abbiano litigato e lei se ne stia andando ma poi lui se ne accorge, la nota e attraversa la strada per raggiungerla. Attraversa senza guardare. Si abbracciano e continuano per la loro strada.
Anche l’autobus va per la sua strada, fa il curvone si inoltra sicuro.
Io invece mi sento in colpa, mi sento sporco.
Chissà se anche le spie si sentivano sporche.
Matt Kindt, Superspy, Topshelf, 2007
Jonatham Lethem, La fortezza della solitudine, Il Saggiatore .Net, 2007
Mercury Rev, All is Dream, Canaveral Pictures, 2001