venerdì, maggio 01, 2015


Sant'Efisio o il mio I maggio.


Fino a un certo punto della mia vita per me il I maggio era la festa di S. Efisio. Tutti ne parlavano e tutti volevano essere sempre in prima fila a vedere i costumi e i carri sfilare. Ogni tanto genitori e parenti mi portavano in via Roma o nel largo a vedere lo spettacolo ma siccome ero piccolo non è che vedessi tanto. E poi non succedeva niente, solo questi e queste che sfilavano a piedi o su un carro trascinato da buoi. Mi sembrava una cosa davvero noiosa e non capivo come poi anni dopo potessero trasmettere la diretta addirittura in tv. Una volta invece avevo visto di sera i miliaziani vestiti come il tamburino del logo della Fiera che tornavano al galoppo. Chissà quale avventura avevano vissuto. Mi piacevano molto i baffi e il pizzetto di S. Efisio, tant'è che per diversi periodi di vita adolescenziale e adulta l'ho indossato. I signori, vedendomi, mi apostrofavano con "sant'Efis sballiau" (il falso Sant' Efisio) e ridevano. L'ultima volta che sono stato a Sant'Efisio è stato nel 2001 prima che il mondo cambiasse, in peggio, per sempre. Ero con mia moglie che non era ancora mia moglie e c'era pure mia madre. Più che altro mi ricordo che indossavo una giacca di pelle scamosciata ed ero in piena crisi di rinite allergica. Nel mentre fra il 1986 e l 2001 avevo scoperto il I maggio come lo festeggiano nel resto d'Italia o almeno a Bologna dove insieme al 25 aprile fa parte del dittico delle festività laiche al pari di Natale e Capodanno. Però anche qui il I maggio non è che mi piacesse molto, con tutti quei discorsi retorici, i comizi, le marce, le facce gravi. Leggevo proprio ieri uno che si chiedeva com'è che la festa del lavoro la festeggi senza lavorare? E poi la voce gioiosa nei supermercati che qui quelli di una certa età chiamano la "cooperativa" che parla di scelte coerenti e di libertà e dagli allora a quell'altro signore che invece i suoi ipermercati li tiene aperti. la libertà è una parola bellissima, ancora più bella quando poi c'è una ricaduta nei fatti e uno il I maggio sarà anche libero di fare quello che gli pare. la possibilità si scegliere soprattutto e vale epr la cooperativa e per la concorrenza. Il lavoro è sacro, un diritto inalienanabile di indipendenza e di libertà. è la modalità del lavoro che muta, cambia rapido ed è buona cosa imparare a leggere questi mutamenti rapidi e continui. Bisognerebbe dare spazio alla libertà e alla creatività, stimolare i sogni che possano diventare impresa e non tarparli prima ancora che prendano semplicemente forma. Come sempre questo I maggio è probabile che lavori, come faccio sempre, oppure esco con famiglia verso qualche giardinetto ameno, magari di sera vedrò il concertone che quest'anno per fortuna non ha come gruppo principale i Nomadi ma Finardi che è sempre un grande. Se ne avessi avuto la possibilità oggi magari sarei a Napoli al Comicon in mezzo alla ressa come mi è capitato spesso in passato. Per ora sono qui alla tastiera dopo aver fatto colazione e aver letto un paio di capitoli di La ferocia di Nicola Lagioia. Non ho nemmeno da pensare al mio Cagliari perché ci ha pensato da solo a togliermi qualsiasi patema e allora penso anche a Sant'Efisio e che un giorno sarebbe bello portarci anche i figli. Magari loro non si annoierebbero nemmeno e io nel frattempo avrei studiato e saprei riconoscere alla perfezione i costumi in sfilata. Uno per uno. E nel resto del mondo e pure in Sardegna, soprattutto in Sardegna dove il lavoro sembra essersi estinto da tempo, non ci sarebbe più bisogno di festeggiare il I maggio perché tutti hanno un lavoro e tutti se ne sono andati giustamente in vacanza lontano dai palchi, dai comizi dai Nomadi e pure dai Modena City Ramblers (a cui ho sempre preferito i Pogues).
Buon Sant'Efisio e I maggio a tutte le persone oneste e di buona volontà.

martedì, marzo 17, 2015

L'illusione della terraferma. Quasi una tavola finita.

Cominciamo a tirare le somme. Dopo tanto lavoro è tempo di mostrare qualcosa di finito o di quasi finito. Niente di meglio che una tavola, ancora priva del lettering con il testo, ma abbastanza definita. C'è molta terra, la mia idea di Sardegna e di Sulcis molto immaginario e soprattutto ricordato quando da bambino lo attraversavo in treno con mia madre per andare a Iglesias dove insegnava alle scuole di Campo Romano, il villaggio di minatori. Me lo ricordo così il Sulcis, un posto dal nome evocativo, che sembra lontano e denso di storie. Per farlo ho usato la grafite, lo sfumino, tanta china, i colori liquidi e poi le rifiniture preziose di Ilio Leo che hanno reso tutto più omogeneo e caldo. Caldo come la terra, anche quella che scende nelle viscere e che diventa miniera. Perché L'illusione della terraferma è anche storia di miniera e di minatori.

lunedì, marzo 16, 2015

Il migliore amico del koala

Il più delle volte sono i bambini ad andare in giro con i peluche. Ce ne sono tanti davvero bellissimi, c'è un negozio sulla 5th Avenue, vicino a Central Park, che ne ha così tanti e tutti così fantastici da riempire l'intero negozio a più piani. In quel paradiso dei peluche in un giorno di pioggia avevo perso moglie e figlio inghiottiti dalla folla prenatalizia. Non è che invece mi ricordi di peluche che se ne vadano in giro stingendosi tra le braccia o trascinandoselo dietro un bambino. Romeo, che è un bambino, è anche eccezionalmente il migliore amico del suo peluche, un koala fornito di papillon.


sabato, marzo 14, 2015

Koala e Romeo.
Prove tecniche di trasmissione 01

Koala l'avevamo inventato da bambini mio fratello e io. Era molto aristocratico, molto british che nel tempo passa da una fase di grande fervore religiose in cui si dichiarava piissimo a una successiva dove si lasciava andare alle passioni estemporanee delle clienti che si fermavano alla sua pompa di benzina, visto Koala faceva il benzinaio.
Romeo invece non ride e questo vi basti.
Romeo nel mondo di Koala è il suo migliore amico immaginario.
Koala nel mondo di Romeo è un peluche che gli ha regalato la signora Dina di cui parleremo un'altra volta.
La signora Dina spera di essere rapita da un pilota di un jet da caccia americano, ma anche inglese. L'importante è che sia alto, con i capelli e romantico come lei.

sabato, marzo 07, 2015


Gli occhi grandi si inseguono sempre.

Sull'autobus affollato che va verso il grattacielo di periferia due ragazzine del Nord Africa ridacchiano. Sono giovani, andranno alle superiori. Una ha il fazzoletto che le nasconde i capelli, l'altra no. Occhi intensi scuri e accento bolognese. Parlano fitto fitto delle cose che parlano le ragazze quando scoprono il mondo. C'è tutto quell'entusiasmo per la vita che anche quando sale sopra le righe è un piacer ascoltare. Ridono e le risale fanno sempre bene all'anima, specie quando è incarognita come ci si incarognisce sugli autobus. Parlano di ragazzi, ne parlano male ma si capisce che ne pensano bene. 
Mentre l'autobus si avvicina alla nuova fermata noto due ragazzi che si danno un gran da fare correndo per raggiungerlo. Vengono notati anche dalle ragazzine che dicono cose tipo "non ci posso credere.... hai visto ci hanno seguito, vogliono salire sull'autobus, cosa facciamo? dai scendiamo? ma ce la facciamo ascendere c 'è troppa gente, dai scusi permesso, fateci scendere!" Non è che sono poi tanto convinte di scendere queste ragazzine, anzi dopo un timidissimo tentativo restano al loro posto appese alle maniglie come quasi tutti a bordo. I presunti inseguitori salgono sull'autobus all'ultimo momento. Ansimano, affannano piegati in due dallo sforzo. Poi si tirano su. Hanno loro occhi grandi e dai tratti potrebbero venire dal Bangladesh. Si guardano intorno spaesati, poi si illuminano e si danno di gomito. Si aggiustano i capelli che sono nerissimi e drittissimi cosparsi di gel. Cominciano a darsi un tono a parlottare dandosi un tono. Le ragazzine smettono di ridacchiare e bisbigliano. Si danno un tono anche loro e gli sguardi continuano a incontrarsi. C'è la gioia della gioventù, quella gioia universale senza confini etnici, geografici, culturali. Sono ragazzi che fanno i ragazzi com'è giusto che i ragazzi facciano. 
In qualche modo mi sento partecipo anch'io e proprio non vorrei scendere da quell'autobus diretto al grattacielo di periferia. Vorrei seguire l'evolversi di quegli sguardi, vedere nascere un'amicizia o soltanto un ricordo buffo di una sera d'inverno padano. Avrei voluto filmare tutto e poi caricare il video su you tube come un esempio di quanto sia bella la vita con una dedica particolare a tutti quegli imbecilli invasati che imperversano nel mondo e sul web che vorrebbero invece un altro mondo decisamente più triste, senza sorrisi e soprattutto senza gioia.

sabato, febbraio 07, 2015

Stefana ha i capelli rossi

Mi sono appena arrivate delle nuove penne giapponesi progettati appositamente per l'inchiostrazione. La curiosità di provarle su diversi tipi di carta, oltre che necessità professionale, è soprattutto momento ludico e di esploarazione. E allora si deisgna a caso, quello che nemmeno ti passa per la mente. Frammenti di volti, pezzi di case, alberi, un commissario Marmo. Poi arriva lei in un altro ritaglio di cartoncino liscio, che per la cronaca è la superficie dove queste penne giapponesi si esprimono al meglio, e prnde forma quasi subito. Da sola. Mentre disegnavo i capelli sapevo già che Marmo l'avrebbe incontrata durante la guerra di Spagna. Lavora in un bordello con poche illusioni sulla vita e sul futuro. Avrebbero parlato per un'intera notte e lei il giorno dopo forse avrebbe cambiato colore ai capelli abbandonando quello stupido rosso fiamma che ostentava come un marchio ineluttabile di ciò che era. Mi sono avventurato con le ecoline rosso scarlatto per testare al tenuta impermeabile dell'inchiostro, che funziona bene, e al rosso ho aggiunto un po' di nero a pennello. Quando sono passato alle rifiniture a pastello mi è venuto in mente anche il nome di questa donna nemmeno giovanissima. Un nome bizzarro per una donna che avevo incontrato tanti anni fa. Si chiama Stefana. Un nome duro dato da un impiegato dell'anagrafe ubriaco o in vena di scherzi grevi. Poi quasi a scusarsi ha aggiunto Pilar a Stefana. Ma lei, questa falsa rossa di una lontana città dei Paesi baschi massacrati e bombardati sarà per tutti solo Stefana.

martedì, gennaio 27, 2015


Pietro, Marmo e Bonaria

Pietro è un bambino senza padre. Crede che sia partito a combattere nella guerra dìEtiopia e aspetta che ritorni carico di medaglie e storie d'avventura da raccontargli. Sua madre Bonaria non ha avuto il coraggio di dirgli che invece è morto in incidente nella miniera di Serbariu dove lavorava come minatore. Bonaria, vedova silenziosa e austera di una bellezza nascosta ha affittato a pensione una stanza ammobiliata al commissario Marmo che si è affezionato a questo bambino ipercinetico, cresciuto nel mito dell'epopea di conquista e affetto da una sindrome progressiva alla vista, forse un glaucoma. Un giorno non lontano Pietro potrebbe diventare cieco. Ma anche di questo nessuno ha il coraggio di raccontaglierlo.

grafite, feltro e colorex su carta da appunti.

lunedì, gennaio 19, 2015

Dall'idea alla copertina.

Quasi sempre in un libro le copertine si fanno prima del libro, o comunque mentre il libro è ancora in corso. Questioni di macchina organizzativa e promozionale che si deve attivare in netto anticipo rispetto alla distribuzione. Nelle miglior mondo possibile è bello pensare alla copertina come atto conclusivo, come summa di un lavoro cresciuto nei mesi, il tassello fondamentale che dà il senso al tutto. Questo è il bozzetto di Marmo che forse andrà in copertina. Il resto a colori è solo un giochino che ho fatto ricordando le stampe
con retino sgranato dei vecchi fumetti.

venerdì, gennaio 09, 2015


Con le braccia catturo le onde

Mentre disegnavo questa tavola ho capito parecchie cose. Per esempio che, per quanto si possa progettare in linea teorica un segno con anche diverse messe a punto sul campo, quando poi si va a disegnar sul serio, la mano va nella direzione che ha deciso lei. Va nella direzione del racconto, perché è il racconto che ti cattura e detta il tempo. Disegni pensando alla storia, all'atmosfera e allora certe idee, anche presuntuose decadono.
 Di fatto L'illusione della terraferma si sta definendo da solo. Il ruolo della matita, che all'inizio del progetto era stato collocato nei segmenti di flashback romani, etiopi e delle guerra di Spagna, si stanno espandendo. In maniera molto naturale direi. L'approccio misto, molto emotivo riaffiora a tratti con prepotenza com'è successo in diversi altri miei lavori del passato. Che lo voglia o no Gabos è anche questo. Devo straniarmi un attimo e vedermi dall'esterno. Capirmi e lasciarmi andare.
Mi sono anche divertito a inventare un tatuaggio marinaro con tanto di motto a sostegno. Una piovra monocola con sotto una scritta su pergamena che recita: "Con le braccia catturo le onde". Ho cercato un po' in giro e non ne ho trovato di simili. Mi sembra plausibile e allora l'ho lasciato. Questa che vedete è la tavola nella versione di studio, come quasi tutte le altre che ho postato. Se non cambio il montaggio in fase di revisione dovrebbe essere pagina 34.

martedì, gennaio 06, 2015

In occasione dell'Epifania vi offro in anteprima assoluta il primo capitolo di un romanzo che stiamo scrivendo in coppia Menotti e il sottoscritto.
IL PAESE SENZA BAMBINI è un romanzo gotico contemporaneo ambientato alla fine degli anni '50 quando l'Italia stava passando da un sistema sociale a trazione contadina a un altro fondato sull'industrializzazione. La storia è ambientata tra le valli di Comacchio e il delta del Po e la protagonista è Teresa una giovane maestra elementare al suo primo incarico come insegnante di ruolo. Non sarà facile. 



Gabos e Menotti

Il paese senza bambini

romanzo

Interludio
Respira, pensa a respirare. E non dimenticarti di continuare a respirare. Affanni con il muco che ti cola sulle labbra che sanno di fango. Sudore, lacrime, muco e di nuovo sudore sui vestiti strappati sulla pelle graffiata. Sei tutta un graffio senti la carne che pulsa di sangue e anche il muco diventa sangue e piangi e non piangi più. Respira, continua a respirare, esatto brava pensa sempre a respirare e adesso pensa anche a scavare.  Scava e respira. Un gesto unico, un movimento sincronico come nuotare perché tu sai nuotare, l’hai imparato presto sugli argini dove il fiume si annulla e diventa mare. Scava e respira, coraggio. Non senti più le mani. Le dita se ne sono andate, risucchiate dalla terra umida. Prima ancora sono state le unghie ad andarsene rosicchiate da pezzi di sasso pezzi di ossa di bestia e non solo di bestia. Ti sei consumata eppure continui a scavare. Di sopra, di sotto, tanto orientarsi ha perso di senso. Scavi anche con i piedi nudi senza più scarpe che le hai perdute. Devi muoverti prima che sia troppo tardi. Non sai dove è il sotto e dov’è l’alto perché non c’è luce perché c’è solo la notte. Scava scava di sopra di sotto con la terra che ti entra negli occhi che s’infila lungo le narici fino alla gola che senti che sapore ha questo schifo di terra. Ha gusto di ferro che è sangue, di petrolio che è amaro, di paura che è dolce. Scava scava che hai la nausea perché hai paura. E arriva il freddo e respiri polvere e terra umida e hai perso le dita e quelle non sono le tue dita e urli mentre scavi e frani in basso di nuovo e poi continui a scavare e vedi  facce che ridono, facce fatte di denti. Denti dappertutto che ridono dei tuoi sforzi inutili.
 Ma tu continui a scavare e non t’importa se intorno c’è solo la notte.


Capitolo 1

A dirotto una pioggia ottusa e senza cuore spazzava via l’illusione di un’estate già finita.
Sul delta pioveva da due giorni che sembrava sempre notte tanto era nero il cielo affogato d'acqua.
In quelle latitudini padane si andava avanti così per tutto il mese di ottobre e poi via senza fermarsi fino a marzo.
- Il sole di qui non passa mai. Stia pur tranquilla lei. 
Le parole di Zanoni finirono risucchiate dal frastuono del motore  della chiatta che arrancava lungo il fiume melmoso disseminato di isolotti, di canne alte, spesso fittissime, nemmeno fossero ai tropici. A intervalli regolari facevano la loro apparizione i capanni dei pescatori, ormai quasi scivolati nell’acqua che sembravano marci, divorati dai lucci. Al di là dell’argine, quasi a protezione del fiume si tiravano su lunghe teorie di pioppi grigiastri. Infine ancora più in là si distendevano ettari infiniti di risaie affollate di mondine e zanzare. 
Tutto appariva instabile, come se anche la terra poggiasse sull’acqua, lunghe lingue di terra pronte a scivolare via alla deriva verso il richiamo di un mare ingordo e crudele.
Dovevano amarla davvero quella terra i contadini del delta per ostinarsi a viverci. Secoli passati a combattere l’acqua a creare spazi solidi assolutamente vitali. 
Drenando, bonificando, incanalando. Il trionfo del genio idraulico, il trionfo della volontà.
Fosse stato per Zanoni tutto quello sforzo idraulico poteva andare anche in malora. Lui che si arrangiava barcamenandosi tra il trasporto e la pesca, spesso di frodo, più acqua c’era meglio era. E poi il riso gli faceva pure schifo.
Scatarrò e poi si scusò con l’unico passeggero a bordo che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
La chiatta, che era vecchia e rabberciata alla meglio,  sembrava intenzionata a interrompere la sua marcia da un momento all'altro. Aveva quasi deciso di morire e nemmeno le fiancate  rattoppate di pezzi di legno colorati, recuperati chissà dove, rendevano più gradevole quel relitto.
Ogni tanto Zanoni le bestemmiava contro per esortarla come fosse una mula di montagna.
Quella rispondeva tossendo sputi di nafta puzzolente.
E continuava a solcare i canali profondi.
Di fronte a Zanoni, insaccata in un impermeabile cerato verde marcio, c’era una ragazza intabarrata anche lei all'inverosimile. Era seduta quasi a prua talmente rannicchiata da dare l’impressione di voler essere da tutt’altra parte.
La poverina soffriva da cani. Soffriva di mal di mare. Poco le importava se l’uomo affermava che il rollio del fiume non era niente in confronto all’Adriatico  Settentrionale a forza 7.
Teresa voleva solo arrivare. Il più presto possibile.
Stettero zitti per un altro po’, giusto il tempo per fare una lunga curva ad ansa che li sballottò a dovere, poi Zanoni, ingobbito sul timone, non ce la face proprio a stare zitto parlò di nuovo.
Giusto per dire qualcosa, come fanno quelli che guidano i tassì in città.
Disse:
- Da dove ha detto che viene, Pescara?
- Fano. È un po' più su, vicino ad Ancona. Marche insomma.
- Ah. Si sta bene lì.
- Perché c'è stato?
- No, ma fa lo stesso. Ovunque è meglio di qui.
- Perfetto. Proprio quello che volevo sentirmi dire. Il modo migliore per iniziare questo trasferimento.
- Ma dai che scherzavo. Vedrà d’estate come diventa bello, i fiori, il raccolto, le sagre in piazza, insomma quelle cose lì che piacciono sempre alla gente.  Perfino questi accidenti di canne diventano belle con i loro pennacchi piumati. E poi si guardi intorno: fabbriche, capannoni, cantieri, ogni ben di dio. Il progresso sta arrivando anche qui. Signorina, qui stanno bucando da tutte le parti, ci danno dentro con trivelle e ruspe. Dicono che qua sotto c'è il metano.  Il gas! Ce n’è a pacchi, pensi un po’ che lusso. L’amico del sindaco, l’ingegner Pardo dice che il metano è il futuro. Il nostro futuro ma anche il nostro presente. Sarà pur vero ma pezze al culo avevo prima e pezze al culo ho adesso. La verità è che qui è tutta una merda.
Una merdaccia eterna!
Zanoni rise di gusto della propria battuta. Era così soddisfatto che la ripeté altre due volte cercando l’apprezzamento di Teresa.
Inutile. Quella stava zitta. E pure immobile peggio di un tronco.

Teresa cercava di guardare avanti, cercare e seguire la linea dell’orizzonte. L’aveva letto su Grand Hotel durante il viaggio in treno. L’esperta sosteneva che la nausea da mal di mare è solo una questione di suggestione dovuta all'alterazione momentanea del senso dell’equilibrio. Se pensi di non muoverti e non ti guardi intorno stai tranquillo anche in mezzo alle tempeste.
Mentre Teresa si sforzava a star dietro all'orizzonte che spariva tra la nebbia e la pioggia Zanoni continuava a parlare.
Parlò ancora un po’ del metano, di Mattei e dello scià di Persia perfino, poi ritornò alle canne che un tempo davano da mangiare a quelli che avevano voglia di tagliarle e raccoglierle. Si potevano fare tante cose con le canne, un po’ come il maiale. Solo che le canne non costavano nulla e invece i cestini e le sedie di canne le potevi vendere anche al mercato.
 E poi in mezzo alle canne dell’isola del Bonello Bacucco si nascondevano i partigiani che fuggivano ai tedeschi. Non era proprio un’isola quella, l’aveva fatta uscire  dall’acqua il fiume a forza di vomitare detriti. Un bel giorno, toh! Eccoti qua un’isola bella che fatta. Sia ben chiaro non era una roba da farci una villeggiatura, un cristiano come si deve non ci avrebbe mai messo piede anche perché poi sarebbe affondato in mezzo al fango e al guano delle folaghe. Loro sì che ci stavano bene.
Ma quelli, i partigiani, ci andavano lo stesso. Certi poi morivano di malaria. Poco male sempre meglio che finire impallinati dai nazisti.
E poi sa che volevano fare i tedeschi dopo la guerra? Una bella idea. A furia di inseguire tra le canne i fuggiaschi si erano resi conto dell'importanza delle canne. Anni fa erano arrivato dei tipi ingiacchettati che volevano fare una coltivazione industriale. Volevano usare le canne per  prenderci la cellulosa e farci la carta. Bella storia davvero. Peccato che non abbiano trovato nessuno ancora disponibile a farsi il culo a raccogliere le canne. Me l'avevano chiesto anche a me. Capirai... le canne. Meglio la chiatta.
Ci avevo un’idea fissa in testa. Volevo pescare gli storioni. Sì quelli del caviale. Non ci crede? Guardi che gli storioni non vivono solo in Russia nel Volga, nel Don o in quei fiumi lì. Fino a qualche tempo fa ce n'erano a pacchi anche qui da noi, sguazzavano beati che era una meraviglia. Qualcuno di loro arrivava anche fino a duecento chili, una bella sberla di pesce, no? Beccare uno storione era un affare, ti sistemavi alla grande per mezzo anno. Potevi vivere da signore se pescavi uno storione. Il caviale era l'ultimo dei problemi, prima c'era la carne. Ha mai mangiato una bistecca di storione? Roba fina, tenera come il vitello. I ristoranti di lusso ce la pagavano a peso d'oro e la scodellavano ai clienti con più grana. Quello che non vendevi ai ristoranti te lo conservavi in casa. Certe mangiate di risotto con trippa di storione. È buona, è buona. Gliel'assicuro, signorina.
Per un po' Teresa si era sforzata di stargli dietro quasi incuriosita poi a sentire di trippe di pesce si concentrò solo a combattere un conato di vomito del suo stomaco che si rivoltava e lasciò che le parole di Zanoni finissero impastate dal brontolio del motore.

All'improvviso l’orizzonte scomparve, il cielo scomparve e tutto diventò grigio totale.
Schizzi d'acqua gelata aggredirono la chiatta investendola sulla fiancata destra.
Teresa riaprì gli occhi bagnati giusto in tempo per vedersi precipitare sul lato opposto dello scafo spinta da un irresistibile conato di vomito.
Poi si tirò su imbarazzatissima farfugliando frasi di scusa nei confronti di Zanoni che cacciò dalla tasca della cerata una scatoletta di latta colorata di verde.
- Ne prenda un po'. Sono pasticche di liquerizia. Fanno miracoli.
- No... non grazie... è che non sono abituata... mi scusi...
- Mi dia retta.

 Obbedì. Il sapore forte della liquirizia perlomeno eliminò l’acido dalla bocca ma non il malessere. La chiatta ristabilì la rotta e il muso piatto continuò ad avanzare ostinato appena ubriaco.
- Era uno storione?
Trovò la forza di chiedere la ragazza.
-Magari! Lo so io cos'era. Bastardo farabutto!
E non aggiunse nient'altro.  Zanoni s’ingrugnì, scatarrò in acqua e virò con vigore.
Teresa si tirò su, si strinse meglio la sciarpa e riprese a cercare l'orizzonte tra la nebbia.
Forse la pioggia stava diminuendo d'intensità o forse si stava già abituando a conviverci. I primi segnali di empatia con un luogo ostile che la voleva mettere alla prova.
Teresa aveva capito subito che ogni singolo istante del suo soggiorno al delta, lato ferrarese, sarebbe stata una prova.
Otto mesi mesi come minimo.
Quasi un intero anno scolastico.
Tanto doveva durare la supplenza.
Le amiche le dicevano che era stata fortunata. Una lunga supplenza era il modo migliore per iniziare la carriera.
Teresa Donati, maestra elementare.
Pensò all'estate, al caldo, alle cicale. Pensò alla terra. Alla terra ferma.
Oltre la riva, in uno spiazzo recintato, alcuni operai si davano da fare con ruspe e camion carichi di detriti. Il marrone scuro delle loro cerate si confondeva con il fango che le aveva sporcate.
Uno di loro salutò Zanoni sbracciandosi entusiasta che gli rispose con un semplice cenno della mano.
Poi biascicò a commento.
-Ma va là busone che mi devi pure rendere 500 lire... busone!
Quindi volgendosi verso Teresa puntualizzò:
  • Debiti di gioco, a briscola. Sa com’è...
  • - No. Io non so giocare a carte.
Sarà meglio che impari subito. Altrimenti sai che due maroni la sera.
Zanoni rise di nuovo mostrando i denti. Gli mancava il premolare destro. Solo allora Teresa lo guardò con più attenzione.
E la faccia che vide non gli piacque affatto. Occhi a fessura e troppo mobili, occhi che scavano che spogliano. Labbra carnose serrate in un ghigno schifato che non se ne andava mai. Il tutto contornato da una barba irregolare cresciuta più per incuria che per vezzo. 
Chissà se sotto il berretto di lana avrà i capelli.
Pensò. Poi chiese secca:
  • - Fra quanto arriviamo?
  • Boh... chi lo sa?... se continua questo tempaccio ci vorrà almeno un’altra oretta. Magari due. Cos’è stanca?
- Sì.
- Se è per quello anch’io sono stanco. Sa a che ora mi sono alzato?
Inutile rispondere tanto quello aveva ripreso a fare comizio.
  • Alle 4. dico è normale alzarsi alle 4?   Certo che no, le dico. A quell’ora si dorme o si fa altro, ma andare a lavorare... e allora passa all’ingrosso prendi i sacchi di cipolle, i sacchi di patate, prendi la farina perché altrimenti il pane come lo fai... e poi torna indietro e prendi il latte perché se lo prendi prima va già tutto a male... e poi arriva pure lei e anche in ritardo.
- Guardi che non è colpa mia se c’era il suicida sui binari... e poi avrei preso volentieri la corriera.
- Come no, me lo dice lei poi come camminava la corriera sulla strada che è sprofondata la settimana scorsa. Qua fra un po’ tra pioggia e trivelle viene tutto giù di nuovo. Lo sa cos’è successo qualche anno fa?
- L’alluvione?
- Proprio lei, la stronza. Beata lei che non c’era. Io invece c'ero e me la ricordo bene.
Silenzio. Per qualche attimo neanche una parola. Poi prima che Zanoni riprendesse fiato con qualche bestemmia si sentì un urto clamoroso e improvviso. Legno su qualcosa di duro che non era roccia.
Qualcosa che emise un verso, un grugnito. Un suono animale.
Teresa perse l’equilibrio urlò e cadde sulla chiglia scivolosa. Si tirò su rapida cercando negli occhi di Zanoni una risposta.  
Quello invece si alzò e cominciò a bestemmiare verso l’acqua che sembrava un pazzo.
Era assodato che non si trattava di uno storione.
Allora cos'era?
Zanoni cominciò a menare nel torbido a colpi di remo finché  una forma indistinta e comunque scura non emerse issandosi dietro due mani rinsecchite da sorcio che cercavano di fare presa sulla superficie viscida. Allora Zanoni abbatté con violenza remo e mani sulla fiancata della chiatta.
Le mani adunche si inabissarono con effetto immediato e fu invece una testa a riaffiorare poco distante. 
Una testa d’uomo fradicia con  liane di capelli grigi che scendevano appiccicati alla fronte enorme da narvalo che dava asilo agli occhi tondi, sporgenti in un atto di stupore.
Occhi vivi di una testa viva e in movimento. 
Sembrava un mostro marino, un orrido tritone, uno Scilla o un Cariddi feroce.
Rise senza motivo e all’improvviso. Sembrava quasi soddisfatto. Urlò gorgogliando anche qualcosa di incomprensibile e poi a grandi bracciate raggiunse la riva voltandosi ogni tanto ancora ridendo.
Zanoni invece continuava a imprecare agitando il remo come una clava impotente.  
Poi il mostro fluviale approdò sulla rena issandosi in piedi aggrappato alle canne di fronte alla chiatta che lo superava di fianco.
Zanoni lo sfiorò con un paio di patate e una cipolla che si spappolò su un sasso incrostato. Continuava a insultarlo e più lo insultava più il mostro rideva.
Teresa assisteva alla scena senza capire, stretta in un angolo a distanza di sicurezza.
Guardava Zanoni che nella foga aveva perso il berretto rivelando un cranio quasi calvo.
Guardava il mostro di fiume avvolto in una tuta da soldato, forse da paracadutista, quanto mai improbabile. La guerra era finita da più di dieci anni.
Li guardava entrambi e aveva paura.
Mentre la chiatta si allontanava quell’altro, il mostro fluviale, cercava di starle al passo correndole dietro. Ogni tanto inciampava, affondava nel fango, poi si rialzava sporco e sgocciolante e riprendeva a correre finché Zanoni non lo centrò sul cranio con l’ennesima patata che però non si spaccò.
Il folle si arrestò di colpo, raccolse la patata e cominciò ad addentarla vorace.
Rideva mentre masticava a bocca aperta.
Rideva.

- È solo uno scemo di guerra. Al Lancillotti il cervello gli è andato in pappa quando gli è scoppiata vicino alle chiappe una granata dei tedeschi. Qualcuno dice che ha fatto il partigiano, addirittura con i rossi più incazzati, quelli della Garibaldi. Ma io non ci credo. Guardi un po’ lei com’è messo quello. Ce lo vede a combattere in montagna?
Io no.
E rise.
 Ridevano tutti e due con l’acqua del fiume in mezzo a tenerli a distanza.
Zanoni e il mostro fluviale, il Lancillotti.
Sembravano vecchi amici, complici, reduci di storie lontane. Storie di fiume, di storioni e di canne al vento che nascondevano i fuggiaschi della parti nemiche.
Per un attimo era come se la guerra non fosse mai finita. Tutti insieme a recitare in un film neorealista.
 E Zanoni che ancora gli lanciava le cipolle.
Continuavano a ridere isterici.
Teresa invece non rideva affatto. Si strinse ancora di più alla sua valigia sperando che le case che vedeva in lontananza fossero l’inizio del paese e la fine di quella traversata da incubo.

-Ci siamo quasi, non si preoccupi. Fra un po’ la metropoli sarà tutta sua.
Ridacchiò sarcastico il barcaiolo che avendo perso il cappello si era issato sul cranio calvo il cappuccio. Arrancava in piedi facendo leva sul remo che sembrava davvero Caronte all’arrivo all’imbarcadero dell’inferno.
In effetti non è che Marfisa sull’Argine fosse un gran bel vedere. Case qua e là con orti derelitti, qualche trabucco di pescatori e poi il grande cantiere della compagnia del gas, affollato di trivelle, camion e trivelle. Il paese vero doveva essere più in là dopo un’altra curva a serpente, quasi nascosto da un’altura a strapiombo davvero fuori luogo. Sul punto più alto c’era una croce di bronzo sorretta da rocce disposte in circolo. Più che un segnale ben augurante appariva come un ricordo di morte e di morti.
  • - L’hanno tirata dopo la guerra. Qua ne sono morti a pacchi. Ancora un po’ e in paese non ci rimaneva più nessuno.
Puntualizzò Zanoni a cui non era sfuggita l’espressione quasi di sgomento di Teresa. 
La ragazza di fece il segno della croce e abbassò la testa.
Avanzarono in silenzio per poco più di un centinaio di metri che lo scroscio della pioggia fu annullato dal boato.
Un boato inaudito che di colpo risucchiò qualsiasi suono circostante. La chiatta che stava ondeggiando pericolosamente era precipitata nel mezzo di un film muto.
Zanoni urlò qualcosa e Teresa non sentì e allora si tenne ben stretta al legno della barca e capì che il boato non era un altro scherzo del Lancillotti.
Capì che era qualcosa di molto più grande, una forza incontrollabile.
Il boato era la voce del gas, del metano.
Le viscere di Marfisa sull’Argine avevano appena dato il benvenuto al suo nuovo ospite.
Il benvenuto all’inferno.

Continua...