lunedì, aprile 24, 2006

immaginari condivisi


Non mi aspettavo che durante la trasmissione radiofonica di Radio CittàFujiko che mi ha visto ospite sabato scorso ci fossero anche i contribuiti, sotto forma di testimonianze registrate, degli amici disegnatori coinvolti in gente Comune. È stata una bella sorpresa e quindi ringrazio Laura Pasotti e Andrea Antonazzo per come hanno orchestrato la scaletta della puntata del loro programma. Un bel programma sul fumetto con musica interessante, diversi spunti e un buon ritmo radiofonico che non è un dettaglio da poco. Le testimonianze degli autori mi hanno offerto una serie di riflessioni su cui sto rimuginando da ieri non appena sono uscito in via Paolo Fabbri, sede della radio. Riflessioni che riguardano il fare fumetto e il confronto con storie e personaggi altrui. Perché alla fine Gente Comune è stato anche questo. Autori diversi che si sono trovati a volersi confrontare con un’idea e un mondo narrativo alieno, partorito e manovrato da un altro. Niente di nuovo. Disegnare storie scritte da altri sceneggiatori per serie già esistenti è prassi editoriale comune. Quasi tutti i seriali sono realizzati in questo modo. Nel mondo è la maniera più normale per fare i fumetti. Io però non ho mai fatto un seriale né pensavo di farlo con Gente Comune. Volevo solo che altri autori interpretassero delle mie storie con personaggi che avevo già usato in precedenza. Volevo che l’interpretazione fosse libera e distante dalla mia visione autoriale, volevo che gli autori offrissero e mettessero qualcosa di loro che andasse al di là delle regole dell’ortodossia. Non è frequente progettare un libro con questo tipo di struttura e non si tratta nemmeno di un libro che vede un gruppo di autori rendere omaggio a un autore o a un personaggio famoso. Gente Comune è stato fatto da autori che vivono nei loro mondi abituali e che irrompono con un’edizione staordinaria in un altro mondo di un altro autore.
Non è stato facile per tutti. Massimo Semerano, anche lui come me è abituato a farsi le storie da solo e tutt’al più a scriverle per altri. Ha vissuto l’esperienza con qualche conflitto. Lo capisco e lo capisco anche di più perché obiettivamente la storia che ha disegnato aveva una partitura tra le più difficili. Eppure quando l’ho vista finita mi sembrava una storia assolutamente di Massimo Semerano. C’è stata un’assimilazione osmotica reciproca. Il discorso vale per tutti gli altri. C’è stato uno scambio continuo di comunicazione.
Nel suo intervento radiofonico Onofrio Catacchio ha sviluppato questo punto dell’assimilazione/interpretazione proponendo un passo ulteriore in avanti che ipotizza in un prossimo volume di Apartments una completa autogestione da parte dell’autore ospite che non si limiterebbe più solo a disegnare ma anche a scriversi la storia.
La suggestione di Catacchio segue di pochi giorni un’altra suggestione/provocazione di Luigi Bernardi che proponeva, mutatis mutandis, un’antologia in cui otto scrittori diversi compongono otto episodi diversi che poi sarò io a disegnare. Il nono me lo posso fare io in solitaria.
Uno scambio continuo e totale di ruoli e contributi. Apartments diventa un punto di partenza comune, un cantiere aperto. Potrebbero essere due antologie davvero interessanti se non altro per vedere come si sviluppano intrecci, fili narrativi, espressioni emotive e stilistiche estrapolate da un contesto privato com’è stato Apartment fino a poco tempo fa. In questo modo il progetto assumerebbe sempre più una natura condominiale e non solo per quanto riguarda la struttura narrativa.
Non mi resta che proporre il primo sondaggio:
Sareste favorevoli alla realizzazione di queste due nuove antologie di Apartments?
La rielaborazione, interpretazione, possessione di personaggi già esistenti mi affascina moltissimo e non penso affatto di essere l’unico. Mi piacerebbe raccontare una storia usando uno o più personaggi di altri autori, di altre epoche. Senza ironia, con un approccio assolutamente serio. Non sarebbe un’appropriazione indebita ma penso solo un atto d’amore. Tuttavia ritengo che tale atto potrebbe incorrere in qualche fraintendimento e problemi da un punto di vista legale. Sarebbe interessante vedere una serie di personaggi trasformarsi in maschere pubbliche come quelle della commedia dell’arte. Personaggi che moltiplicandosi, smembrandosi e ricomponendosi assumerebbero davvero una reale dimensione popolare.
Lancio anche il secondo sondaggio e mi rivolgo soprattutto agli autori:
Sareste disposti al sciare che altri autori usassero i vostri personaggi nelle loro storie?
Chiudo allegando una vignetta del Viaggiatore. Sono a buon punto, recupero posizioni. Spero che rpeso lo possiate leggere anche voi.

giovedì, aprile 20, 2006

intervista radiofonica

comunicazione di servizio.
sabato 22 dalle 13 alle 14 sono ospite al Garage Ermetico trasmissione che va in onda su Radio CittàFujiko. I residenti a Bologna o dintorni che volessero ascoltarmi possono sintonizzarsi sui 103.1 in FM mentre gli altri che abitano altrove possono andare sul sito web della radio.
http://radiocittafujiko.it/home/.
parlerò delle mie utlime uscite, di fumetto in generale e di tutto quello che verrà dalla conversazione.

martedì, aprile 18, 2006

l'ultimo giorno di Elvis

Mi piace andare in giro per le (ormai poche) librerie dell’usato. Vittima della passione dei sensi di colpa compro quasi sempre qualcosa che prima o poi leggo nel corso del tempo, specie nei momenti di vuoto. Uno degli ultimi acquisti è stata una biografia su Elvis Presley. Un tascabile in brutte condizioni, sgualcito, vissuto, letto più volte, pasticciato di scritte. Apparteneva a una ragazza. Anche senza leggere il nome lo si capisce. Usa quella calligrafia tonda e grassa molto simile a quella delle compagne di classe ai tempi del liceo. Quando ne sentiva la necessità sottolineava, commentava. Un’esternazione continua che distrae. Quasi un libro nel libro e a volte è proprio lo spirito voyeur a vincere.
Mi chiedo perché poi ci si debba disfare di un libro che si ha amato tanto, che ti ha accompagnato magari anche in momenti cruciali. Com’è che si cambia così tanto, com’è che si arriva all’esigenza di disfarsi di una parte di sé in un modo così netto. Però il libro non viene distrutto, non viene fatto a pezzi, non viene bruciato ma piuttosto ceduto, anzi venduto. Le tracce del passaggio, della cannibalizzazione vengono lasciate intatte nella loro sfrontatezza incuranti di una qualsiasi forma di pudore. Mi fanno pure questi atti esagerati nella loro sicurezza ostentata. La storia di molti di noi né è piena. La contraddizione e il successivo superamento fanno parte della crescita e dell’essenza, del nerbo dell’individuo. Benvengano sempre. Non mi sono mai piaciuti gli atteggiamenti assoluti e totalizzanti, quelli che ti vengono sbattuti in faccia quasi per obbligarti a schierarti. Il bisogno di appartenere per forza alla tribù sempre in guerra.

In quella forma di dedica, tributo, omaggio d’amore dichiarato e suggellato dall’impronta delle labbra cariche di rossetto c’è tutta quella carica vitale di una ragazza che ora avrà 16 anni in più rispetto alla data scritta in alto. Mi piacerebbe incontrarla e le chiederei perché è finita con Elvis e se ci sono stati altri dopo di lui.

Ho letto quella biografia di Elvis e dopo un po’ sono andato direttamente alla fine, nei pressi della sua morte. All’ultimo giorno. Alla serie infinita di psicofarmaci allineati sul comodino.
Nomi di medicine che possono essere veri o di fantasia che non cambierebbero nulla. Conta solo la quantità e il rituale che si reitera.
Quaalude, Secondal, Tuinal, Amytal, Valium, Demerol, Valmid, Placydil.
Nomi esoterici, elitari e lontanissimi. Suonano come i personaggi goffi di un brutto romanzo fantasy.

venerdì, aprile 07, 2006

My own Blues. Incontrando Robert Johnson


Il blues non mi è mai piaciuto e forse anche per questo non mi sono sforzato nel cercare di capirlo. Una questione di frequenze sonore, brani che quando iniziavo ad ascoltare sapevo già come andavano a finire, la ripetività infinita. Per me il blues sempre stato il peggio dei Doors dal vivo, il peggio dei Rolling Stones, B.B. King enorme che dondolava sulla chitarra a D.J. Television (preistoria dei videoclip), la spocchia melensa di Eric Clapton. Ogni tanto qualcuno mi dava dei consigli per una buona discografia, quasi tutti mi invitavano ad avvicinarmi a John Lee Hooker, ma io niente imperterrito e irremovibile nel mio rifiuto. Così nella mia piccola collezione di vinile e di CD non compare nemmeno un disco di blues. O meglio di blues come viene etichettato e riposto negli scaffali dei negozi. Per me blues era ed è uno stato dell’anima e allora considero blues Nick Cave, Jeff Buckley, Tom Waits, Matt Johnson (The The), Mark Hollis (Tal Talk), Bruce Springsteen acustico (Nebraska), Chet Baker sia con la voce che con la tromba.
È così è stato per tutti questi anni.
Eppure i luoghi dove nasce il blues sono tra i miei luoghi letterari preferiti. Intensi, carichi di mistero, ricchi di fiabe nere di morte, d’amore e di sangue. Terre infinite attraversate da un fiume infinito. Ho letto Mark Twain in passato e lo sto rileggendo adesso, leggo del Texas orientale di Landsdale, mi sono immerso nella decadenza sonnolenta e polverosa delle pagine di Donna Tartt, vinto e avvinto da storie e atmosfere immaginandomi altre colonne sonore che non fossero mai di blues tradizionale.
Poi qualche tempo fa leggevo in treno sulla tratta Parma Bologna Tishomingo Blues di Elmore Leonard nella traduzione italiana di Wu Ming 1. Siamo dalle parti del Delta, caldo torrido, acqua, tuffi nelle piscine dei resort ultra kirsch e campagna. Il gangster dandy, questo Robert Taylor, nero di Detroit, dice a un certo punto:
- Se non conosci questo non conosci il blues.
Un suono ruvido di chitarra ritmica.
- Cazzo, ma di quand’è?
- Inciso settant’anni fa. Ascoltalo bene, questo è Charley Patton, la prima superstar del blues. Senti, qui, grezzo e duro, ti arriva bello potente! Questa è High Water Everywhere, parla dell’inondazione del ’27, che ha cambiato la geografia del Delta. Senti che dice:
“Volevo andare sulle colline ma la via era sbarrata”.
Respinto dalla legge. I terreni alti erano solo per i bianchi. Scrivevano canzoni su quello che gli capitava, sulla loro vita, su com’erano fottuti dalla legge o dalle donne che li lasciavano. Tutto sull’uomo e la donna, la vita nelle piantagioni, il lavoro nei campi, le catene ai piedi... Quest’uomo Charley Patton, col suo stile ha influenzato Son House, e Son House ha influenzato il più grande bluesman di tutti i tempi, Robert Johnson. Robert Johnson ha influenzato Howlin’ Wolf e tutta la scena di Chicago e questi ultimi hanno lasciato il loro marchio su tutti quelli venuti dopo. Compresi gli Stones, I Led Zeppelin, Eric Clapton.

È stato questo elenco a darmi la scossa. Non per i nomi degli artisti, che come ho già detto non rientrano nella mia hit parade, ma proprio per la scansione, per il ritmo, la storia, la leggenda che si viene a creare semplicemente elencando dei nomi, il passaggio, il canto che viene tramandato.
È dentro a questo elenco snocciolato con sentimento straordinario da Robert Taylor /Elmore Leonard che ho intravisto per prima volta il blues. L’ho sentito per la prima volta. Chiaro e forte.
Sono andato a comprarmi un CD di Robert Johnson. Ce ne sono diversi ma tutti con gli stessi brani. 29 canzoni riconosciute a cui se aggiungono delle altre sotto forma di frammenti, inediti ritrovati per un totale di 40 brani. Ho ascoltato Robert Johnson più volte. Mentre disegnavo, mentre continuavo a leggere Tishomingo Blues, mentre andavo a cercare notizie e testi su di lui. Mentre facevo altro o giravo per casa. Il mio blues quotidiano.
Anche se le incisioni sono molto vecchie e di scarsa qualità la voce ti entra dentro lo stesso, ti attraversa e affonda feroce. Alla fine ho capito che quella lentezza, implacabile che a volte si scuote con acuti improvvisi è il battito, il respiro. Il cuore che pulsa, i polmoni che respirano, la macchina della vita non è altro che il blues. Complimenti! Ci ho messo 40 anni a capire qualcosa. E forse siamo appena all’inizio. Magari un giorno mi piaceranno anche Eric Clapton e i Doors dal vivo. Per ora c’è Robert Johnson che poi ritorna anche in Tshomingo Blues e anche prossimamente su queste pagine.

Saluti da White Plains (NY, USA)


è tardi. Ultimo giro di posta quotidiano. oggi non ho disegnato niente del Viaggiatore, me ne dispiace e la privazione mi infastidisce. in compenso qualche giorno fa ho fatto l'ultima vignetta del volume. una panoramica aerea di White Plains (NY, USA) dove si svolge la storia. è questa che vedete.

lunedì, aprile 03, 2006

segnalazioni


volevo ringraziare Nicola d'Agostino e Sara per avermi postato un disegno che ho fatto in occasione del Comicon di Napoli. lo ripropongo anche qui perché l'ho disegnato con piacere, come del resto questo giro di dediche napoletane. disegni fatti con i tempi giusti, con la china e con l'acquerello indaco. nel frattempo si poteva anche chiacchierare con i lettori che alle fiere è la cosa più bella.
segnalo il sito di nicola
http://www.nezmar.com

voglio anche segnalare la nuova uscita di Onofrio Catacchio per le edizioni Cut Up. si tratta di un'affascinante rivisitazione della Fattoria degli Animali a cura di Andrea Balzola. il titolo "La fattoria degli anormali" è decisamente inquietante.
http://www.onofriocatacchio.com/news2.asp?cod=26

domenica, aprile 02, 2006

Ragione e amore

Mio padre era appassionato dei fumetti d’anteguerra specialmente quelli di autori italiani. Mi riferisco a Molino, Albertarelli, Canale, Moroni Celsi. Più o meno tutti a un certo punto della loro carriera affrontavano un testo di Salgari. Negli anni ’70 si cominciavano a trovare in giro in circuiti quasi clandestini, sicuramente esoterici delle ristampe. Molte erano con una nuova veste grafica, altre invece fedeli all’originale e addirittura in copia anastatica. Mio padre aveva preso contatti con molti di questi piccoli editori e comprava per corrispondenza oppure quando poteva li andava a trovare di persona. Io spesso lo accompagnavo. Mi ricordo di un editore che ristampava in grande formato anastatico l’Orlando Furioso di Albertarelli (opera tra l’altro sublime che esaltava al massimo i vertiginosi funambolismi poetici di Ariosto). La sede dell’editore era in uno scantinato, forse una cantina, a Firenze. Un luogo quasi misterioso, sicuramente ascetico, invaso da pile di ristampe. Parlarono per ore. C’era molta nostalgia, ma anche e soprattutto molto amore per quei fumetti.
Riprendo e rilancio la provocazione lanciata da Igort in un post su Barnaby.
Quanti sarebbero i lettori che avrebbero voglia di leggere Barnaby et similia?
Io non so come rispondere, ma penso di sapere cosa potrei fare. Informare prima di tutto. Parlare, scrivere, raccontare. Chi sa non deve stare zitto. A volte l’informazione desta la curiosità, suscita interesse, può creare domanda e rendere maturi il tempo di una riproposta matura e critica. È vero che negli scaffali dei remainders ci sono tantissimi volumi di bei fumetti, spesso dimenticati. Il fatto è che non tutti i già pochi frequentatori delle librerie visitano abitualmente i remainders e poi si tratta anche delle confezioni editoriali. In tanti casi tali edizioni risultano datate nella grafica, nella copertina, nella carenza di un approccio critico. Una riedizione accurata, fatta appunto con amore, aiuterebbe non poco un’eventuale riproposta in libreria. Mi viene da pensare ai volumi dei Peanuts curati da Seth. Come ho già scritto non sono un appassionato sfegatato di Snoopy e soci ma vedendo un’edizione simile faccio davvero fatica a resistere all’acquisto (c’entra anche il costo elevato è ovvio). In Italia di recente è uscito il primo volume delle ristampe integrali di Krazy Kat. L’impianto è lo stesso della versione americana con grafica di copertina di Chris Ware, le note italiane sono a cura di Luca Boschi che ha fatto un bel lavoro e non è reponsabile della scelta infelice della carta. Sarei curioso di conoscere le reazioni del pubblico a questa iniziativa, quindi invito quelli che l’hanno letto a intervenire nel dibattito unitamente a Luca Boschi stesso che ci può raccontare cosa l’ha spinto a intraprendere questa operazione (assolutamente necessaria aggiungo).
Mi immagino gli alti rischi economici a cui si può andare incontro a varare iniziative simili, immagino e capisco la titubanza, io però che non sono editore ma in questo caso solo lettore e appassionato (che compra i libri) rispondo a Igort dicendo che oltre a Barnaby leggerei con piacere una lunga lista di opere troppo a lungo trascurate. Per esempio Felix the Cat (non solo quello di Pat Sullivan), tutto Popeye (e come potrebbe altrimenti...), Pogo di Walt Kelly (mai apprezzato come merita). Mi fermo qui che è meglio.

Barnaby di Crockett Johnson


“Probabilmente solo oggi nel 1970, dopo una qualche educazione al fumetto quale mezzo d’espressione, Barnaby può essere apprezzato come merita un fumetto singolare, in bilico tra favola e scienza, in anticipo e in ritardo insieme su qualsiasi tempo immaginabile, tanto disperato almeno quanto ilare. Barnaby è un fumetto unico.”
Così scriveva Oreste del Buono nella prefazione dell’Oscar Mondadori dedicato a Barnaby di Crockett Johnson. Parole lucide che non hanno perso affatto di significato. Dopo 36 anni dalla pubblicazione in volume tascabile siamo ancora lì senza una ristampa, senza un’edizione critica, una riproposta. E me ne dispiace perché è ingiusto e immeritevole che opere come Barnaby finiscano nell’oblio o nella migliore delle ipotesi negli scaffali di una libreria dell’usato dove ho comprato qualche settimana fa -per la terza volta mi pare- la raccolta dell’unico fumetto realizzato da Crockett Johnson. Lui nato David Johnson Leiski di solito scriveva e illustrava libri per ragazzi e per l’infanzia. Barnaby è stata la sua unica incursione in un linguaggio fratello come quello del fumetto. C’era la guerra. In Europa e nel resto del mondo c’era la guerra. In America no. Tutti erano andato a combatterla oltre gli oceani, però anche lì ci si preparava alla guerra. Esercitazioni con la contraerea, oscuramenti, restrizioni e razionamenti del cibo e delle risorse e poi tutti in fabbrica a costruire cannoni e munizioni, aerei e navi. È davvero inusuale che si parli di tali argomenti in un fumetto per bambini. Che se ne parli in tono lieve, quasi di sfuggita, senza retorica e facile patriottismo. Forse a leggerlo bene Barnaby non è proprio un fumetto per bambini. Anzi. È un fumetto infinito, come quei romanzi che ti accompagnano per tutta la vita e che ogni volta che li leggi ti sembrano diversi, quasi cresciuti di pari passo a te, la tua ombra, la tua coscienza. Barnaby appartiene a questa categoria di privilegiati – ma al contempo anche di sfortunati data la loro difficile collocazione-.
Io ho incontrato Barnaby, anzi Mr. O’Malley, passando davanti a una libreria di via Dante a Cagliari dove ho trascorso gli anni decisivi della vita. Sarò stato in terza elementare e già da un annetto collezionavo Devil e l’Uomo Ragno. Mio padre che conosceva tutti i fumetti non conosceva Barnaby e sulle prime non sembrava molto intenzionato ad acquistare il libro. Fu mia mamma dopo pianti e lagne reiterate a comprarmelo. Forse l’unico fumetto che mi abbia mai comprato, lei mi foraggiava di Salgari e Verne. Credevo che Barnaby fosse quell’omino grasso vestito di verde munito di minuscole ali rosa che campeggiava sulla copertina. Ci rimasi un po’ male a scoprire che Barnaby era invece il bambino. I protagonisti sono quelli della copertina, e che diamine! Mi faceva uno strano effetto leggere le storie con quel lettering da libro e non da fumetto. Mi sembrava brutto e mi ricordava i fumetti del Monello e dell’Intrepido scritti a macchina ma in maiuscolo. Poi mi sono abituato e l’ho letto. Il mondo parallelo di Barnaby, Mr. O’Malley volevo che diventasse anche il mio. Volevo che si materializzasse intorno a me. Era un mondo magico ma semplice, alla portata di tutti. Non avevo mai visto disegni come quelli di Crockett Johnson. Lineari, ma morbidi e mai freddi, li sentivo intimi senza riuscire a definire il perché. I disegni non avevano prospettiva, sfondi, ambienti e oggetti erano sistemati come quinte teatrali, non avevano spessore, volume, però c’erano. Esistevano. Mi piaceva poi che le figure si vedessero quasi sempre per intero, che i personaggi camminassero, si spostassero in quello spazio fantastico e di cartone che ricordava i programmi della TV dei Ragazzi. L’ho letto e riletto senza che mio padre lo aprisse mai. Allora ci rimasi male, ora so anche perché. Non ne aveva bisogno, lui era come Barnaby. Anche da adulto non aveva mai abbandonato quello sguardo di stupore che andava ben oltre la realtà quotidiana. Mio padre ha sempre avuto vicino il suo Fato Padrino e magari era proprio Mr. O’Malley.



Ho ricomprato per la seconda volta L’oscar di Barnaby quando stavo da poco a Bologna. Forse a un mercatino del libro usato. Lessi con più attenzione la prefazione di del Buono scoprendo che la prima apparizione di Barnaby risaliva niente meno che al 1947 sulle pagine de Il Politecnico diretto da Elio Vittorini per poi essere riproposto proprio da Oreste del Buono su Linus. Non furono apparizioni molto apprezzate, tant’è che i lettori di Linus lo relegarono al penultimo posto della classifica gradimento preceduto solo da Krazy Kat. I preferiti erano e sono tutt’ora i Peanuts. La cosa strana è che Krazy Kat e Barnaby sono tra i miei fumetti preferiti e che invece a differenza di milioni di miei coetanei non ho mai comprato il diario Linus ai tempi di scuola. Fedele al diario Vitt. In quel mio secondo approccio non mi limitai a leggere solo la prefazione di OdB. C’erano anche i dodici episodi della serie. Scoprii l’aspetto psicanalitico, quello più adulto. Il signor O’Malley era la materializzazione del bisogno disperato di avere altre prospettive, altre vie di fuga. Un’alternativa alla vita da adulto basata sul buon senso e sulla routine e poi la sera in poltrona a fumare la pipa ed ascoltare la radio (ora la TV). Mr. O’Malley è un Peter Pan meno fisico e più introspettivo, molto più realistico, infatti non ti porta in nessuna isola che non c’è. Basta osservare meglio, concentrarsi e lasciarsi andare allo stupore. Quel senso di meraviglia quasi del tutto perduto. Non è un caso che questo secondo approccio a Barnaby abbia coinciso con la lettura del saggio sulla letteratura fantastica di Todorov.
Ho comprato Barnaby per la terza volta qualche settimana fa in una delle poche librerie dell’usato superstiti in questi tempi di grossa distribuzione. Ci vado da anni e non solo perché è vicino a casa.
Ho riletto Barnaby vivendolo nella sua totalità. Adulto e bambino. Con gli occhi di un adulto (quale sono diventato obbligatoriamente) e con gli occhi di mio figlio. Non mi sono messo a disegnare Mr. O’Malley solo per pudore e per rispetto al personaggio e all’autore, ma avrei davvero voglia di leggere tutti quegli episodi mai scritti. Confesso che però sarei quasi appagato se qualche editore, e mi rivolgo soprattutto a quegli editori amici e sensibili, prendessero in considerazione l’idea di una bella ristampa. Forse a distanza di 36 anni dal pocket Mondadori il pubblico è pronto ad apprezzare Barnaby e non solo perché è un fumetto unico.

sabato, aprile 01, 2006



foto scattata e gentilmente concessa da smokyman durante una sessione di dediche al Comicon di Napoli di marzo scorso presso lo stand della Black Velvet.
Sentitamente ringrazio.

Messaggi nella bottiglia

Si cambia.
innanzitutto si cambia nome. d'ora in poi il mio blog si chiamerà "Radio Herzberg". Era il titolo di una storia apparsa su Dolce Vita nel lontano '89. L'avevamo realizzata in coppia, Menotti e io. c'eravamo divisi i compiti in una ripartizione senza frontiere, scrivevamo insieme, disegnavamo insieme. idem per le chine. Radio Herzberg era una radio clandestina in tempo di dittatura che rincuorava gli ascoltatori che avevavo la fortuna di captare le frequenze pirata. Radio Herzberg era nascosta tra i monti in un punto inaccessibile, irraggiungibile. Quasi un luogo mitico, di sicuro leggendario. Forse le voci venivano da un altro tempo, da un altro luogo e si erano perse nell'etere, forse non c'era nessun dj a chiamarsi Florian Szabo. Da Radio Herzberg arrivavano i messaggi, messaggi affidati a bottiglie viaggianti nella corrente. Ci piaceva l'idea delle voci che attraversavano il tempo, come la luce delle stelle esplose da secoli, come le sonde esiliate in un esplorazione senza fine in giro per lo spazio. da quel numero di Dolce Vita non abbiamo più fatto altre storie su Radio Herzberg. Ora a distanza di 17 anni le voci ritornano in questo mio nuovo blog che parte da presupposti un po' diversi dal Gabos Inside che l'ha preceduto. non ci sarà solo un diario di bordo che racconta quasi in diretta la cronaca della mia attività di autore, Radio Herzberg sarà una vetrina, un'occasione per parlare e discutere di cose che mi piacciono e che mi fa piacere condividere. Una radio silenziosa ma ricca di immagini. I miei messaggi nelle bottiglie. Spero che qualcuno di essi giunga a destinazione e stimoli una discussione che coinvolga soprattutto i viaggiatori di passaggio, i visitatori abituali, gli ospiti sempre graditi.

A volte le storie iniziano da sole